1) Presagio Non necessariamente folle dev’essere l’uomo, per amare. Oh dolce compagna dimentica, questo dovrebbe essere il momento in cui cominciamo a ridere e ridere e piangere di tutti i morti che sono sepolti qui sotto. E appena l’attimo prima dell’attimo In cui comincerai a capirci qualcosa, vedremo anche noi i fiori crescere dalle radici. E riconosceremo dal rumore che fanno le spire nella terra, le rose profumate e le margheritine di grazia pura che ti infilavi nei capelli, e le viole, e i giacinti che andavi annusando per valli sterminate. Riconosceremo quei fili minuscoli che succhiano dalla terra quei steli capovolti che si arricciano e affondano di fianco alle nostre teste, tra le nostre dita secche, fin dentro le nostre orbite vuote. E tu mi dirai, avvolta e radiosa nel tuo sorriso più bello, che nulla è perduto. “Nulla è perduto!” Che dalle tue parti, i morti li tirano fuori dalla sabbia che ancora cantano. Mi dirai che per quanto allora fossi solo una bambina, hai visto coi tuoi occhi un vecchio suonatore di chitarra che separava gli astri dal cielo con la sola punta delle dita. Riderai. Riderai di me e dei miei occhi velati, cento passi avanti verso la casa del diavolo, sicura che, se dev’esserci un modo per vivere ancora, lo terrai piegato nella tasca prima della mezzanotte di domani.
(2) Rivelazione Quel granaio di pura tenebra, dritto come un capezzolo senza aureola, come un bocciolo di rosa, se ne sta fermo e mi fa le facce. Ecco! Di nuovo! Cielo e mare hanno lo stesso odore, volta e impiantito brillano della stessa luce fioca. Crepiti di perle preziose, rare come rara la stella, clangori di tuoni, fulmini, saette. Fasce verticali spesse un palmo screziate di nero e di neon intermittente. Piogge di denti caduti, affilati, sopra tappeti di plastica pura. Salotti soffocanti, affollati. Pesche dall’alto, dal basso, fiocine e lenze. Rami distanti un miglio l’uno dall’altro, eppure miei. Ecco! Di nuovo! L’immagine di me seduto nel centro della sala, per terra. Seppia sul capo, occhi di Proust. Calza scarpe bianche da tennis e chitarra in palissandro chiaro. Dice che riesce a suonare quarantasei note al secondo. La gente intorno, facce sbiadite al ricordo, si guarda, gli sputa, lo incalza. Querula bestia quasi senza denti, povera belva di questo mondo. Figlia di un parto senza ritorno, figlia del massacro. I miei occhi guardano il cielo come mai altri occhi hanno osato guardare. Occhi come asfodeli poco più duri del liquido, lanterne appese a mezz’aria semi d’oppio, due ulcere plasmate a somiglianza di Dio. Muoio. Muoio. Non come morirebbe l’orso o il lupo o la balena. Muoio come solo l’uomo ha l’idea di morte.
MUSICHE: Sandro Bagazzini
AUDIO- VIDEO: Marcello D’andrea
TESTO: Francesco Orchi
GUITAR : A. Marseglia
ATTRICE: Solange Rocco
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